giovedì 30 ottobre 2008

Che cosa resterà della protesta studentesca?

Che cosa resterà della protesta studentesca, alla fine? Un fatto di straordinaria importanza: la riscoperta da parte di grandi masse di giovani della passione politica e, soprattutto, della possibilità che un pluralismo di idee e atteggiamenti non comporti di per sé lo scontro. Questo va al di là del fatto che, consciamente o per ripetizione di slogan di parte, troppi se la siano presa con un obiettivo sbagliato: la piccola riforma della scuola elementare e media, con qualcosa, insomma, che con l'università c'entra nulla.
Vedere moltissimi studenti alle prese con la lettura della Legge finanziaria oltre che dell'allora decreto Gelmini fa superare il fastidio dell'assistere ai tentativi di consiglieri regionali, deputati, politici antigovernativi di catturare la benevolenza dei giovani, solleticando la loro voglia di rivolta. E anche quello del vedere baroni e aspiranti baroni universitari flirtare con studenti considerati, a volte con perfida sapienza, massa di manovra per la conservazione dell'acquisito.
Ho letto di lezioni in piazza, più comizi (a stare alle frasi riportate su giornali) che dottrina e di altre che denotano la non curanza della terra in cui si esercita, quasi che si volesse accuratamente evitare di legare la protesta a ragioni di identità. Ha ragione, per dire, Andrea Lai (Ma i baroni continuano a essere intoccabili, su questo blog) a lamentare che il torto della assenza della lingua sarda nell'Università, che prende soldi dalla legge dello stato di tutela delle lingue minoritarie e da quella della Regione n. 26, non è solo dei baroni ma anche di chi doveva controllare - la Regione - e non l'ha fatto. Qualche tempo fa avrei contestato con convinzione a Lai che il Piano triennale della Regione questo sopruso ha denunciato, prevendo che d'ora in poi i soldi saranno dati non genericamente alla "cultura sarda", ma alla lingua.
Ora temo che si sia trattato di un escamotage sardistico, visto che la Regione ha preferito protestare contro i tagli della finanziaria statale anziché usare il grimaldello del nostro essere minoranza linguistica per scardinare alla radice la politica dei tagli nei confronti della scuola e dell'università sarde. Vado dicendo ogni volta che posso che le classi dirigenti sarde, da quella politica a quella intellettuale a quella sindacale, hanno indecentemente omesso di ricordare al governo italiano che la scuola di una minoranza linguistica (vedi il Sud Tirolo) non può essere trattata come la scuola della maggioranza linguistica italiana. E di pretendere, quindi, il rispetto concreto di tale condizione peculiare. Si è al massimo lamentata del fatto che i tagli influiranno sulla tenuta dei piccoli paesi, una peculiarità (l'unica prospettata) che tale non è: sono 2800 i piccoli centri a rischio in tutto il territorio della Repubblica.
Io spero che alla fine di questa bella loro riscoperta della politica, i giovani sardi sapranno presentare il conto sia ai partiti che oggi (alla vigilia delle elezioni europee) li corteggiano sia all'insieme della politica che di loro ha fatto a meno per lunghissimi anni sia di quelli dei loro professori che per difendere "s'issoro" li hanno portati sull'orlo della desardizzazione più completa. Magari usando i soldi che lo Stato e la Regione ha dato loro per suscitare stima nella lingua e nella cultura sarda.

martedì 28 ottobre 2008

Stato, Nazione e confusione a iosa

Quando devo riempire i questionari più maleducati, quelli che invece di chiederti quale sia la tua cittadinanza chiedono quale sia la tua nazionalità, ogni volta che ne ho la possibilità scelgo la voce "altra". Quasi sempre, nei cosiddetti menu a discesa, compare di primo acchito "Italiana" o "Italia", poche volte la voce è libera e scrivo allora o "Sarda" o "Sardegna". Una piccola rivalsa contro i prepotenti e i nazionalisti granditaliani che o per protervia o, più spesso, per bolsaggine non distinguono fra nazionalità e cittadinanza, fra Nazione e Stato.
Con piacere, ho letto ieri su Il Corriere della sera, la risposta che Sergio Romano dava a un vedovo di Carlo Azelio Ciampi che, nel suo settennato, seminava Nazione e nazionalismo in ogni luogo. Il testo della risposta è nel mio sito, per chi l'avesse persa. Lamentava, il lettore che i politici italiani non "parlano mai di nazione, ma sempre di Paese". Scriveva, il lettore, che "purtroppo sono proprio questo genere di complessi che fanno perdere agli italiani l'ambizione e la fiducia nel futuro". Paese, con la p maiuscola, è un'enfasi un po' orticante, visto che prefigura uno stato fatto di quartieri e non mi pare che l'Italia, o Francia o Spagna o qualsiasi altro stato unitario siano insiemi unitari in cui l'unica differenza sia quella fra quartieri.
Ma è sicuramente meglio di Nazione, intesa come sinonimo di Stato: il mio Stato è l'Italia ma la mia Nazione è la Sardegna e mentre domani le vicende politiche potrebbero far sì che la mia condizione di cittadino italiano cambi in quella di cittadino sardo, lo status di Nazione per la Sardegna non cambierà mai, a meno di cataclismi imprevedibili.
Ecco, per la prima volta a che io sappia, in un grande giornale italiano, la differenza fra Stato e Nazione si affaccia, con prudenza e reticenza, ma si affaccia. Già, reticenza, visto che fra tutte le nazioni non stato esistenti non cita la Sardegna né alcun'altra esistente nella Repubblica italiana. Non il Friuli, non il Sud Tirolo, non la Nazione slovena, non la Valle d'Aosta. Ma, si sa, i problemi degli stati plurinazionali li hanno tanti stati europei e non solo. Certamente non l'Italia.

Sud Tirolo: a lezione di giornalismo

Che bello avere una stampa attenta a farti capire rapidamente le cose. Due o tre stilemi, una manciata di luoghi comuni, qualche stereotipo e la nostra curiosità è servita: abbiamo capito tutto di quel che è capitato nelle elezioni nel Sud Tirolo. La Südtiroler Volkspartei ha perso voti e ne hanno guadagnati (molti) Die Freiheitliche e (pochi) la Süd-Tiroler Freiheit; il resto se lo sono spartito altri movimenti sudtirolesi e ladini e i partiti italiani.
Ha vinto - dicono i giornali - la destra tedesca, populista e xenofoba, e quella nazionalista. Die Freiheitliche (i libertari) sono una costola del partito del defunto leader carinziano Haider e la Süd-Tiroler Freiheit (il movimento di Eva Klotz) è erede dei nostalgici dell'autodeterminazione sud tirolese. Niente di serio, insomma e, comunque, un fenomeno passeggero legato alla moda dell'astio nei confronti degli italiani. E così le cose sono sistemate: una spruzzatina di incasellamenti prefabricati: destra estrema, xenofobia, populismo, pangermanesimo, sono sufficienti a far capire. E soprattutto a far prendere le distanze da qualcosa di assolutamente incomprensibile.
Ci sarebbe il fatto che una parte consistente dei sudtirolesi non si sente a proprio agio nello Stato italiano e vorrebbe poter decidere se continuare a farne parte o no. Ma sono dettagli. Ci sarebbe il fatto che, non ostante il soccorso ottenuto da elettori italiani, la Südtiroler Volkspartei paga con la perdita di quasi otto punti percentuali l'alleanza stretta con Romano Prodi, "una cosa scorretta per un partito etnico" dicono gli avversari, ma sono quisquiglie.
Per capire è sufficiente sapere che il gioco si è svolto fra una destra populista e xenofoba e il resto dei sudtirolesi, tutta brava gente, oramai convinta di quali magnifiche sorti e progressive riservi loro lo Stato italiano.
Diomio, ma perché non ci restituisci la Pravda? E se proprio non vuoi, almeno le Izvestia.

lunedì 27 ottobre 2008

Ziu Paddori a Mamoiada

Un bambino scrive: "Mae', lei mi vuole a sposo ma io non la voglio perché è troppo povera" e giù a ridere. Non per la carica di testosterone del fanciullo o per il suo classismo. Si ride perché ha fatto uno strafalcione in italiano, come ce ne sono molti nella raccolta che due maestre di Mamoiada hanno fatto dei "pensierini" dei loro allievi. Giovedì prossimo, le due insegnanti presenteranno il loro libro "Detti, ridetti e tornati a ridettere" alla Biblioteca Satta di Nuoro.
E' dai tempi della farsa di Efisio Melis Ziu Paddori, che muove al riso il massacro della lingua italiana fatta dai villici che vogliono parlarla senza saperla. Di regola, i buoni colonizzati usano il sarcasmo per sottolineare l'ignoranza dei selvaggi e chi, invece, nella veste di colonizzati non si sopporta, si adira contro il potere centrale che pretende di imporre una lingua diversa da quella usata. C'è da sperare che le due maestre appartengano a questa seconda categoria.
L'ironia della sorte fa sì che questo libro esca nel momento in cui il governo italiano sta prendendo atto della inutilità di due o più maestri per una sola classe. Dal punto di vista dei colonizzati, le maestre mamoiadine mostrano di essere state incapaci di imporre la lingua italiana. Scrive un loro epigono, cronista di La Nuova Sardegna, che questa raccolta suscita "anche un po' di amarezza" per i compitini "grammaticalmente e sintatticamente scorretti, pieni di sardismi, stroppiature delle parole e stravolgimenti dei verbi. Anche quando la Tv è entrata prepotentemente nelle case con la lingua nazionale".
Dal punto di vista di chi sa che l'inculturazione linguistica è un male e che è invece un bene l'accolturazione (lo scambio fra uguali), questa vicenda è salutarmente indicativa della resistenza linguistica dei bambini di Mamoiada. Bambini coscienti, se così si può dire, che un conto sono i mamuthones e un conto è la loro lingua.
Proprio dalla raccolta degli "strafalcioni", se volessero, le maestre potrebbero partire per segnalare a tutti i loro colleghi in rivolta che nell'uso intensivo della lingua sarda, oggetto e veicolo di studio, ci può essere in Sardegna la salvezza del secondo maestro. Un giorno, chi sa?, si potrebbe scrivere un libro alla rovescia, raccogliendo gli italianismi nella scrittura del sardo. Vedrete che risate.

domenica 26 ottobre 2008

Ma i baroni continuano a essere intoccabili

di Andrea Lai

Caro Gianfranco,
per non incorrere nell'errore di dire "piove, governo ladro!", credo che sia necessario distinguere le questioni climatiche da quelle governative.
Un problema, a livello nazionale, è quello dell'università e dei recenti provvedimenti della banda Berlusconi. Un altro problema, a livello locale, è quello della lingua sarda e delle università sarde. Solo distinguendo si può capire.
Primo problema. Forse ti sfugge che quei baroni contro i quali - giustamente! - ti lamenti, non verranno neppure sfiorati dai nuovi tagli: loro la strada la hanno già fatta tutta, sono intoccabili. I tagli andranno drammaticamente a danno dei giovani (studenti e ricercatori, che baroni non sono): sforbiciare il fondo di finanziamento ordinario, ad es., significa fare pagare più tasse agli studenti (perché le università da qualche parte i soldi li devono pur trovare), significa assumere meno giovani ricercatori (che andranno in Francia, Germania etc.), e così via. Ti sembra giusto?
L'Italia è in Europa uno dei paesi che, in rapporto al PIL, investe di meno nell'istruzione e nella ricerca. La ricerca universitaria è vitale per un paese: serve, ad es., a trovare la cura contro malattie micidiali, a depositare brevetti che danno ricchezza... a fare tantissime cose. Basta vedere la Cina e l'India per intuirne l'importanza.
Chi, in un momento di recessione, sostiene che è giusto tagliare i fondi sull'istruzione e sulla ricerca è uno stolto, che per giunta non ha mai preso in mano un bignami di economia.
I baroni sono un problema, certo: ma la soluzione non è tagliare le gambe ai giovani, che non hanno colpe. Serve la valutazione, quello che si è appena iniziato a fare in questi anni: il lavoro dei baroni deve essere valutato, pesato, censito. Avranno sul collo il fiato degli studenti, saranno costretti a fare il loro dovere, come gli altri.
Non mi convince un ragionamento del tipo: visto che dei soldi sono stati spesi male, facciamo dei tagli, così soldi ce ne saranno pochi per tutti, anche per quelli che li hanno sempre spesi bene. Io dico: spendiamo bene, facciamo dei controlli affinché si spenda bene, incrementiamo gli investimenti nella ricerca a livello di Francia, Danimarca... (le riforme a costo zero, o sotto zero, ne converrai, non portano da nessuna parte).
Secondo problema. Quanto alla lingua sarda e alle università sarde, penso che tu abbia ragione, ma solo in parte, e per omissione. Bisognerebbe anche prendersela con chi alle università ha dato i soldi senza controllare come venivano spesi: cosa impediva alla Regione di chiedere preventivamente alle università sarde quali fossero le cattedre da finanziare coi suoi soldi e, magari, bocciare quelle che non andavano bene? Mi proponi "Astronomia della Sardegna"? Io te la boccio: mi pare facile, o no?
Voglio dire che c'è anche una colpa di qualcuno per un mancato controllo, il che mi pare persino più grave di un uso "disinvolto" dei fondi regionali.
Grazie come sempre per l'ospitalità.

sabato 25 ottobre 2008

Quei baroni universitari, alleati degli studenti

Ricordo la mia prima occupazione. Fu della facoltà di Architettura a Firenze. Non giurerei che fosse il primo dei motivi, ma fra di essi c'era il "tema" che l'illustre barone ci aveva dato: "Progettate una gabbia per giraffe". Cambiata facoltà, un altro illustre docente (fu poi anche presidente del Consiglio), questa volta di Scienze politiche, mi negò di poter presentare una tesina sul "Rapporto fra democrazia e socialismo". E sempre un altro barone si vendicò della magra che gli avevo fatto fare rispondendo alla sua domanda: "Mi dica quanti sono gli stati divisi in due parti". A quelli che egli conosceva, Germania, Corea, Vietnam, io aggiunsi il Laos che o non ricordava o ignorava. Me la fece pagare, abbassando il voto in un esame che, per altro, riconobbe eccellente.
Questo sistema di intoccabile e proterva baronia era obiettivo di una contestazione poi prese la via di una totale e generale contestazione "al sistema". Ne faceva parte tutto ciò che si metteva di traverso alla nostra voglia di cambiare le cose, di rivoluzionarle. Ne faceva, comunque, parte la baronia universitaria. Mai e poi mai sarebbe passato in testa agli studenti contestatori di fare alleanza con i membri della baronia contro il governo in particolare e "il sistema" in generale.
Questo dell'alleanza che gli studenti di oggi hanno stretto con i baroni è l'aspetto francamente meno comprensibile della contestazione odierna contro la riforma Gelmini e contro il decreto governativo che taglia considerevolmente la spesa per la pubblica istruzione. Studenti mi raccontano vessazioni subite: presentatori di una tesi di laurea che non si presentano il giorno della discussione, esami saltati per assenze neppure giustificate (almeno agli studenti), appuntamenti cruciali con i docenti mancati e chi più ne ha più ne metta. La baronia ha ripreso piede, se mai davvero gli universitari nel passato le abbiano sconfitte.
Al di là del giudizio sulla riforma Gelmini (nessuna riforma della scuola, da quella di Berlinguer a quella di Moratti a quest'ultima è mai passata senza forti contestazioni), è piuttosto chiaro che i soggetti in alleanza hanno motivazioni in conflitto fra di loro. E stanno insieme così come fece il centro-sinistra la scorsa legislatura in Italia, diviso da interessi contrastanti e unito solo contro Berlusconi. La baronia universitaria difende i propri interessi corporativi, starei per dire di casta. Gli studenti mirano a una scuola migliore, ma dubito che abbiano la consapevolezza di battersi per la conservazione dell'esistente. E' uno status quo, quello esistente in Sardegna, che dello studio degli elementi costituenti la società sarda fa a meno. Prendetevi i piani di studio riguardanti la storia e la protostoria: la Sardegna vi è assente o è presente in maniera talmente marginale da tendere alla non evitabile ciliegina sarda su una torta mcdonald's.
Guardate come sono stati spesi i soldi ricevuti dalla Regione per la valorizzazione della lingua e della cultura sarda e dallo Stato per la valorizzazione della lingua. Leggete su questo blog "Lingua sarda e università. Numeri da spavento" e, su Diariulimba, l'articolo di Roberto Bolognesi "Tragicommedia di Ferragosto. Come e perché le università sarde spendono (o buttano) i soldi destinati alla lingua sarda". Volete conservare questo stato di cose, studenti sardi? Volete coprire con la lotta alla riforma scolastica un destino alla vostra definitiva desardizzazione? O non sarebbe meglio contestare la riforma, se così ritenete giusto, e però pretendere che quel decreto rispetti e potenzi la specialità della vostra terra, imponendone il rispetto anche ai baroni, vostri occasionali alleati, interessati a voi, temo, in quanto massa di pressione.

giovedì 23 ottobre 2008

Greenpeace, carbone e foga antiautonomista

In questi giorni di sospensione del mio blog, c'è stato un avvenimento fra gli altri che mi ha colpito particolarmente: l'assalto di Greenpeace alla centrale di Fiume Santo in Sardegna. Non è il più importante, ma solleva questioni che riguardano l'intero sistema economico, politico e istituzionale della nostra Isola. Greenpeace ce le ha sbattute in faccia alla sua maniera, con un atto di forza che, in altri contesti e prodotto da qualsiasi altra organizzazione, sarebbe stato considerato con minore simpatia. La contestazione ha riguardato l'uso del carbone nella centrale sarda.
Quella del carbone come fonte energetica è una scelta in cui si mescolano ricatti che sono frutto della debolezza economica della Sardegna, subalternità a piani energetici che sono indifferenti alle nostre reali necessità, pressioni dei sindacati. Sicuramente non è una scelta autonoma, fondata su una analisi delle necessità energetiche dell'Isola e sulla considerazione di quale sia il modo migliore per soddisfarla. Così come non fu scelta autonoma consentire la distruzione delle foreste sarde per dare all'industria italiana carbone, traversine per treni e pali per le miniere o la rapina dei ricchissimi giacimenti sardi, dal rame alla blenda al piombo.
Ricordo di aver visto, moltissimi anni fa, una pagina pubblicitaria su un giornale brasiliano: il governatore di uno stato poverissimo, il Mato Grosso se non sbaglio, offriva il suo territorio a industrie che volessero impiantarvisi, senza alcun obbligo di non inquinare. La miseria a questo portava, a mettere i disoccupati di quello stato di fronte all'alternativa: o morire di fame o morire di inquinamento. In misura meno drammatica, è quel che è successo in Sardegna qualche anno fa, quando i sindacati si misero di traverso al referendum che condannava i fumi d'acciaieria, pericolosissimi. O quel che succede intorno alle miniere di carbone sarde. E' stata la pressione dei sindacati e di alcuni partiti, che si sentono portavoce dei minatori, a condurre all'utilizzo del carbone per la produzione di energia elettrica. E' più facile chiedere la riapertura delle miniere di carbone che cercare possibilità di nuova occupazione attraverso una faticosissima ricerca di modelli alternativi.
L'azione di Greenpeace ha rimesso in discussione la decisione del Governo sardo di autorizzare la centrale di Fiume Santo a funzionare con quel minerale ritenuto, non certo a torto, altamente inquinante. E insieme a questa la politica regionale contraria alla diffusione parossistica delle altrettanto inquinanti pale eoliche.
Come spesso accade con queste multinazionali ambientaliste, la messa in campo di un problema si accompagna ad inaccettabili proclami antiautonomisti. Un portavoce dell'associazione se ne è uscito dicendo che non è tollerabile che una regione abbia una politica energetica difforme da quella dello Stato. Questo non vorrebbe il carbone, la Regione sì; questa non vuole le migliaia di pale eoliche, lo Stato sì. Una sciocchezza senza capo né coda, il proclama di Greenpeace. E' una fortuna per i sardi che la Regione abbia il potere di decidere in maniera difforme dallo Stato: il paesaggio della nostra terra quale risulterebbe dalle decisione dello Stato (e di Greenpeace, se ne avesse il potere) sarebbe di pessima qualità: migliaia e migliaia di enormi pale come quelle che si ergono nei pressi di Perdasdefogu.
Greenpeace se ne strabatte della qualità del paesaggio sardo, purché l'Italia ottemperi alle prescrizioni del protocollo di Kyoto e di quello dell'Unione europea oggi sospeso. La Sardegna no. Forse già come oggi è, la nostra isola sarebbe in grado di essere virtuosamente in linea con il trattato firmato nella città giapponese. Forse è proprio questo che l'assessore dell'ambiente dovrebbe far valere, anziché impegnarsi a rispettare un accordo, quello degli stati dell'Ue, che ancora non c'è. Sarei, ovviamente, felicissimo se la Sardegna fosse in grado di firmare autonomamente quello o altro accordo internazionale. Temo, invece, che Morittu - promettendo a Greenpeace di applicare l'inesistente protocollo europeo - si sia lasciato trascinare dall'enfasi antigovernativa: Berlusconi non lo firma, io sì. Purtroppo per noi, non è credibile.

sabato 18 ottobre 2008

Il maratoneta in zippone

di Gigi Sanna

Andrea Mulas lo conoscono ormai tutti ad Oristano. Si è fatto tanti amici con quel suo carattere gioviale, con la sua spontaneità ed umiltà. Ma ancor più è diventato simpatico per quella sua idea ‘strana’, per il chiodo fisso di suscitare in qualche modo volontà di movimento, gioia di vivere ed entusiasmo tra i giovani di una città della Sardegna da sempre notoriamente sonnacchiosa, rassegnata, fatalista.
Lui infatti non ci sta a che Oristano, la città dei Re Giudici sardi, sia l’ultima ruota del carro per iniziative economiche, culturali e sportive. Cosciente di abitare in una terra che ha dato tanta storia, sia nel recente passato sia in quello più antico dell’ Isola, di questa terra ha assunto da tempo i simboli forti, proponendoli in modo del tutto singolare all’attenzione della sua città, della Sardegna e del mondo intero, soprattutto in quelle particolari ricorrenze che sono solite richiamare centinaia di migliaia di persone da ogni angolo del pianeta: le Maratone internazionali.
Dopo aver raggranellato i quattrinelli con l’aiuto di qualche amico e di qualche sponsor per il viaggio ed il breve soggiorno, eccolo il nostro maratoneta, oristanese e sardo, superallenato dai sentieri aspri e dai campi brulli del Sinis, pronto per la gara di Amsterdam. Correrà però diversamente da tutti gli altri: in costume sardo, con tanto di berritta, 'entone, zippone, ragas e cartzones de orroda. Un abbigliamento non certamente in linea e sportivo il suo, paragonato alle magliette e ai pantaloncini corti che trionferanno per l’ occorrenza.
Ma Andrea è andato nella città dei tulipani per non essere un anonimo, uno dei tanti, ma per provocare il pubblico, per attirarne l’attenzione in virtù del suo stratagemma di arrivare al traguardo comunque per primo. Il primo degli ultimi, per volontà propria. Anzi c’ è da scommettere che batterà il ‘Guinnes’ dei primati per vestiario pesante (manca solo la mastruca) in una gara di corsa di 42 chilometri.
Tutti così lo vedranno e gli faranno tanti applausi chiedendo e chiedendosi chi è e da dove venga quel tale con quella pittoresca tenuta sportiva. Per l’occasione si porterà il grande manifesto realizzato dall’amico Massimiliano, che lo dipinge come un eroe sardo con l'albero giudicale arborense in Amsterdam (I AM-SICORA); così come uno degli eroi sardi dagli ‘occhi solari’ di Monti Prama era stato dipinto nella precedente Maratona di Dubai.
Vai Andrea, anche noi ti seguiamo e tifiamo per te; per te ultimo ma primo, nell’impresa di raggiungere il fine, soprattutto quello segreto, di abbattere il muro ed il mostro dell’indifferenza e del nessun entusiasmo tra i nostri giovani. Vai sicuro perché stavolta non ti aiuteranno solo degli eroi semidivini ma sarà al tuo fianco, in pariglia, addirittura un antichissimo dio, un ‘sardus pater’ del Sinis vestito proprio come te, con la berritta al vento, mentre uccide il drago, ovvero il mostro dei mille pericoli, le paure, le angosce, quelli che da sempre hanno tormentato la vita dell’uomo.

Mettiamo i puntini sulle i...

di Andrea Lai

Caro Gianfranco,
qualche piccola puntualizzazione.
Per la ricerca sociolinguistica della RAS, affermano di SAPER PARLARE una varietà locale (non solo il sardo) il 68,3% degli intervistati. Quelli che poi dicono di FARLO REALMENTE sono molti di meno: per es., coi figli dice di farlo il 16% ca. (col tabarchino siamo sopra al 50%: ben più vivace del sardo!).
Questi dati sono in linea coi dati ISTAT del 2006: in Italia il 45,5% degli intervistati dice di usare in famiglia solo o prevalentemente l'italiano. Prendendo il dato disaggregato per regioni, in Sardegna si sale al 52,5%. La famiglia, si sa, è il luogo in cui il "dialetto" è più parlato: se più della metà degli intervistati dice di usare in famiglia l'italiano qualcosa vorrà dire (nello stesso ambito dice di usare il dialetto o un'altra lingua meno del 15% dei coinvolti). Si può confrontare con la Calabria, o il Veneto: qui, rispettivamente, solo il 20,4% e il 23,6 degli intervistati dice di usare solo o prevalentemente l'italiano (il 31,3%% e il 38,9% il dialetto).
Mi permetto di puntualizzare perché altrimenti sembra che in Sardegna sono più quelli che parlano in sardo di quelli che parlano in italiano, il che non giova certo alla causa del sardo.
Sulla Gelmini, poi ci sarebbe da discutere, ma su altre basi. Ciao.

venerdì 17 ottobre 2008

Gelmini: lìtera aberta a fìgiu meu

Fìgiu meu istimadu,
s'Universidade tua est in bullùgiu, e però, mancari a sos tempos, babu tuo apat ocupadu facultades e universidades, non so de acordu cun sos cumpàngios tuos chi sunt a cuntierra contra a sa reforma de s'iscola amaniada dae sa ministra Gelmini. Pro duas resones: a) s'universidade chi tue connosches, sa de Casteddu, non podet sighire a èssere sa chi est; b) sa neghe de su chi l'est capitende no at a èssere totu sua, ma est finas sua.
Che a sa de Tàtari, s'Universidade de Casteddu non s'abìgiant chi òperant in una terra, sa Sardigna, chi no est che a àteras terras in sa Repùblica italiana. Inoghe - l'at naradu una cherta universitària etotu - sa maioria de sa gente (68,4%) chistionat in sardu (o in gadduresu, tataresu, cadalanu, tabarchinu). E be', pro s'universidade sarda est comente chi custu belle 70% mancu b'esistat. In su mese di trìulas, in custu blog, apo publicadu sa resurta de un'istudiu de sa Regione. B'at nùmeros de ispantu. Unu pro totu: mancu un'euru de sos chi a sas universidades lis ant integradu sa Regione e s'Istadu pro afortiare sa limba sarda est istadu impreadu pro bos imparare, a tie e a sos cumpàngios tuos, sas cosas in sardu.
No est neghe de sa ministra Gelmini ne de sa Regione, si sas universidades sardas no ant impreadu custu e àteru dinare pro fravigare professionalidades novas chi mancu su guvernu italianu aiat pòtidu iscantzellare. E, a la nàrrere ladina ladina, no est chi sos precàrios e sos professores oe in cuntierra si sunt trèmidos meda pro pedire cun totu sa fortza chi bi cheriat càtedras chi s'esserent fundadas in s'imparòngiu de su sardu e in sardu. Si sunt istèrridos, ponende afigu in un'Istadu chi, a gana o a mala gana, deviat pacare istupèndios siat chi produant e siat chi non produant. S'ant imbentados càtedras sena contu nen capu. Lègheti un'artìculu del Roberto Bolognesi in Diariulimba. E tando, comente si narat, a chie si istròpiat a manos suas non si pòngiat a prànghere.
Sa matessi cosa est capitende pro sas iscolas elementares e mèdias. Como est totu unu pranghe pranghe ca in Sardinna si cherent tancare sas iscolas in sa biddas minores, a riscu de disparèssida. Ma in Itàlia sas biddas gasi sunt prus de 2800: pro ite in ive eja e inoghe nono? In ite sas iscolas sardas sunt diferentes dae sas italianas, si non si ponet mente chi s'ùniga resone est in su fatu chi in Sardinna b'at una limba diferente dae s'italianu?
Narant chi su mastru ùnicu no andat bene. E carchi unu s'atrivit a nàrrere chi bi cheret unu mastru chi imparet a sos pitzinnos un'àtera limba. Su sardu? Mancu acurtzu: s'ingresu. E puru, cherende, sa Regione aiat dèvidu apogiare sos mastros chi aerent pedidu unu segundu mastru pro su sardu. Nudda. E tando, comente si narat, a chie si istròpiat a manos suas non si pòngiat a prànghere.
Como, fìgiu meu, sa Regione at leadu su pessu de giùghere sa reforma Gelmini cara a sa Corte costitutzionale ca, nat chi, in unas partes abutinat sas cumpetèntzias de sa Regione. Tue giai l'ischis chi cada bia s'Istadu chircat de apedigare s'autonomia sarda mi pòngio sa berrita a tortu. E finas sa pretesa de s'Istadu de comissariare sa Regione sarda si no nche iscantellat unu tantu de iscolas est un'assàchiu a s'autonomia sarda. Bene fatu, duncas, si no esseret...
Si no esseret chi pròpiu sos partzidos chi fiant e sunt in su guvernu de sa Regione nd'ant fatu a caddu e a pede pro botzare, in su 2006, sa lege costitutzionale chi creschiat sos poderes de sas regiones. L'ant fatu aboghinende chi cussa lege punnaiat a truncare s'unidade de s'Istadu. Unu machine chi non bi pigigaiat ne a muru ne a gianna, ma chi at singiuladu chi sos partzidos de guvernu de s'autonomia no ischiant ite si nde fàghere. Como chi su guvernu italianu at leadu a sa sèria sos anneos unitaristas de tando e chi cheret cussiderare sa Sardigna una in mesu a sas regiones italianas, mi' sa rebellia de sa Regione.
Sos cumpàngios tuos sunt in abolotu e bene faghent. Mègius diant fàghere leende a sa mèria non sa Ministra ebia, chi faghet su dèvere suo de guvernante italiana, si non totu sos chi deviant fàghere su dèvere issoro de sardos e chi no l'ant fatu.

(traduzione in italiano)

mercoledì 15 ottobre 2008

Per fatto personale...

Una anonima il cui indirizzo elettronico comincia con "vafa@" (nomen omen), mi par di capire critica di questo blog di cui però non riesce a fare a meno, e comunque dalla sintassi pencolante, scrive:
"Che bravo giornalista... puoi ritenerti soddisfatto per aver istigato a rispondere a dei "CIARLATANI" con i tuoi epiteti gli scontri all'interno del tuo blog .
Valeria
P.S. meno male che gli archeologi non ti rispondono più ... altrimenti sai che fila in tribunale".

Naturalmente non mi interessano gli insulti di un asino allo specchio. Più interessante è sapere se "vafa" è latrice di messaggi da parte di archeologi.

Non sarà "il", ma "un" Santo Graal forse sì

di Gigi Sanna

Caro Gianfranco,
vorrei entrare nel merito dell’argomento, quello offerto dal prof. Sauren sulla coppa rinvenuta ad Alessandria e presentata durante la Conferenza di Madrid. Un argomento interessantissimo del quale non possiamo che ringraziarlo per avercelo proposto. Devo premettere che ho parlato nel frattempo con diversi amici, biblisti e non, della coppa, dell’intrigante espressione contenuta nell’oggetto e dell’alfabeto che corre lungo tutta la superficie (quella solo visibile) esterna di esso. Naturalmente abbiano ritenuto fondate le critiche mosse dal professore sul singolare modo di presentazione della coppa della quale, praticamente, sappiamo quasi nulla. Nulla sulle misure, nulla sulla materia di cui è composta, nulla, soprattutto, sulla seconda parte della scritta che presenterebbe un ‘OGOISTAIS’ a cui si darebbe valore di ‘magi’(non si capisce bene però ‘chi’ lo dia questo valore).
Il prof. Sauren offre, sia pur con prudenza, la sua dotta interpretazione, affrontando non certo superficialmente ma con la dottrina che possiede ed il rigore dovuto, l’intera scritta, sia sul versante paleografico sia su quello lessicale ed ermeneutico complessivo. Prendendo per buono l’OGOISTAIS che non si vede, (leggi tutto)

martedì 14 ottobre 2008

Luigi Nioi: quando su strexu si fa arte

di Paola Alcioni

All’etimo greco poiein, che esprime l’attività prerogativa dell’homo sapiens et faber di fare, plasmare creare e progettare, si lega sia l’arte del poeta, che quella del ceramista. Un tempo, ad Assemini, erano molte le botteghe di artigiani che, lavorando al tornio l’argilla alcalina di cui il territorio è ricco, producevano su strexu de terra, le stoviglie di terracotta necessarie per trasportare, cucinare e conservare gli alimenti.
Questi” scrive l’Angius nell’Ottocento “fabbricano con qualche arte delle stoviglie grossolane…
Nel tempo l’attività degli artigiani asseminesi si è sempre meno finalizzata alla produzione di vasellame da cucina, per orientarsi verso l’artigianato artistico, tanto da meritare alla cittadina il riconoscimento di “Città di Antica Tradizione Ceramica”.
Ora, grazie alla creazione del Centro Pilota per la Ceramica, il visitatore può ammirare ed acquistare le produzioni contemporanee della ceramica asseminese, sistemate nella vasta sala espositiva di via Lazio, visitabile tutti i giorni. Ricostruire il procedere dell’oggetto della quotidianità verso l’arte equivale sopratutto, per Assemini, a raccontare la vita avventurosa di Luigi Nioi. Così, il poeta va a trovare il ceramista per ascoltare la sua storia.
Negli anni in cui la guerra rendeva discontinua la possibilità di un’istruzione, ed il cortile era la prima scuola, il piccolo Luigi assisteva affascinato al quotidiano miracolo della terra che si faceva forma tra le mani dello strexaju. Volle dialogare anche lui con la materia che suo padre Fedele preparava e dominava con la forza delle braccia, prima di accompagnarla con decisione e gentilezza nella fantastica danza del tornio. Cominciò sommessamente, modellando campanelle dai suoni diversi, piccole stoviglie e giocattoli.
Il padre, scorgendo nell’operosità di quelle piccole mani la promessa di una passione vera, a sei anni lo fa sedere al tornio, quello a pedale, lento, adatto all’esigenza di fissare nella memoria i passaggi e i movimenti che legano il progetto mentale alla forma finale dell’oggetto.
A nove anni Luigi possiede un piccolo forno personale e a quattordici ha il mestiere in mano. Un giorno - suo padre è assente - si assume, con il complice assenso della madre Federica, l’arduo compito di caricare il forno grande di tutte le stoviglie pronte per la cottura: un azzardo che poteva risolversi in fallimento. Al suo ritorno il padre, vedendo lo splendente oro rosso allineato nel cortile esclama: “Bravo, sei promosso!”
La possibilità – finalmente – di studiare, non lo allontana dalla sua passione, ma ad appena ventitré anni, resta solo a badare alla madre e alle sei sorelle. I progetti, fatti col padre per il lavoro comune, devono ridimensionarsi. Eppure le parole di un farmacista e chimico, amico di famiglia, che un giorno ragionava con Fedele di colori e vernici, non abbandonano i suoi pensieri. In Sardegna non esistono i colori già pronti, non si conoscono i procedimenti per realizzarli e mancano le attrezzature. Ma l’idea di aprire una strada nuova per la ceramica si rafforza in lui: il poiein diventa progetto.
Luigi visita le fabbriche di colori del Continente, impara le regole della smaltatura, acquista a Deruta un forno moderno ed è pronto per le sue prove d’artista. Congeda gli operai e comincia a riprodurre oggetti di scavo, a copiare piatti antichi e ogni frammento di ceramica su cui riesce a mettere le mani. Esegue infinite prove di mescolanza dei colori per riprodurre i decori antichi delle ceramiche della nonna. Gira la Sardegna alla ricerca di argille leggere che rendano i suoi manufatti simili agli oggetti di scavo e infine i suoi studi sono coronati da successo.
È a questo punto che Luigi, mentre il legame con la sua terra riemerge con tutta la forza, opera una scelta: non copierà più, ma applicherà tutto ciò che ha imparato alle forme tradizionali della quotidianità, che appartengono alla cultura sarda, tramandate da padre in figlio. D’ora in avanti, i suoi lavori nasceranno sempre da un rapporto personale nel quale l’esigenza del cliente e la perizia dell’artefice sono stimolo l’uno dell’altra, nella creazione di un pezzo unico che non avrà eguale.
E la storia delle terrecotte diventa storia di tesori. Alla fine degli anni ’60, Luigi viene chiamato nella Costa Smeralda da committenti molto speciali, tra i quali c’è la signora Swarovski. Le sue ceramiche cominciano ad essere apprezzate in tutto il mondo e un grande personaggio come Antine Nivola vuole conoscerlo. Avviene così l’incontro che produrrà una profonda amicizia e una straordinaria collezione di oltre cento opere, modellate dal lavoro comune dei due artisti.
Intanto poco più che quarantenne riceve il cavalierato e viaggia: nel 1979 è nello Zaire con i missionari carmelitani in compagnia dell’artista P. Sciola, e insegna la ceramica ai pigmei. Dopo il 1985 nelle favelas del Brasile e, ancora, in Europa ed in Giappone. Ottiene più volte nei concorsi per tornianti i titoli europeo e mondiale, singolo e a squadre. Il suo nome diviene noto, ma come nell’arte, così nella vita, è l’amore per la semplicità che lo contraddistingue.
Vado a trovarlo e mi riceve con serena cordialità, mentre le sue mani modellano l’argilla al tornio, come hanno fatto tutta la vita. Al culmine di questa favola, nient’altro di prezioso attorno a lui a parte le sue ceramiche, gli affetti familiari, i ricordi di Antine Nivola. Tra questi, una frase che mi confida sul finire della nostra conversazione. “Ne ho viste tante di mani lavorare” disse Nivola osservandolo al tornio, “ma nessuna come le sue…” Sento un brivido d’emozione e annuisco. Nello iato tra la parola detta e quella taciuta abita un significato ulteriore, indicibile, che l’orecchio abituato all’eloquenza del silenzio sa cogliere.
Dalle campanelle modellate con dita piccine tanti anni prima per sfidare l’argilla alle diverse sonorità, il fare di quelle mani aveva imparato a trasfigurare la materia in poiesis. E Nivola – poeta della materia - se ne accorse.

domenica 12 ottobre 2008

E c'è poi la straordinaria arte nuragica

di Paola Pirina

Che bella notizia! L'ho subito comunicata ai miei alunni. Il ritrovamento dei piedini di bronzi di 'Pollicino', come lo ha chiamato efficacemente ed affettuosamente il giornalista Enrico Carta nella Nuova Sardegna, mi riempie di gran felicità per il mestiere che svolgo. Infatti, sono un'insegnante di Storia dell'Arte che ormai da un po' di tempo fa conoscere alle scolaresche del Liceo De Castro 'anche' l'arte sarda del periodo nuragico;in particolare la bellezza e la grandezza artistica della cosiddetta statuaria di Monti Prama di Cabras e quella della bronzistica sarda legata ai piccoli capolavori noti come 'bronzetti' sardi.
La scoperta fatta a Maimoni (tra l'altro una spiaggia rinomatissima e frequentata da moltissimi turisti di ogni parte del mondo) sembra farci capire, artisticamente parlando, due cose: che gli antichi sardi della Seconda metà del Secondo Millennio a.C. non erano secondi a nessuno per capacità tecniche (uso del procedimento della cera persa, sofisticate matrici in talco (di Orani), ecc.); che il loro concetto dell'arte, cioè della perfezione del manufatto legato alle simbologie e sorretto dall'armonia compositiva, spaziava a trecentosessanta gradi. Infatti, oggi scopriamo, con soddisfazione estetica (e se si vule anche 'politica'), che miniature di realizzazione ai limiti delle possibilità umane si univano ad altre un po' più grandi e ad altre ancora grandissime. E forse ci manca, limitandoci alla sola bronzistica, un ultimo tassello. Perché, come ha già scritto Silvio Pulisci nell'euforia del ritrovamento, non ci sarebbe da stupirsi se si trovasse da qualche parte, in un nuraghe o in un segreto ripostiglio nuragico, qualche busto di bronzo con misure corrispondenti a quelle reali umane (oppure qualche protome taurina o d'altro animale, chissà!). E' noto che i Sardi (teste Pausania) mandarono un busto in bronzo del loro Dio (il famoso Sardus Pater che sembrerebbe oggi il destinatario della Stele di Nora) al santuario di Delfi in tarda epoca storica. Ci piace immaginare che non fu difficile agli artigiani sardi, gli ultimi eredi della grande bronzistica sarda, produrre una statua tecnicamente perfetta ed esteticamente assai valida per il santuario più rinomato e frequentato di tutto il Mediterraneo.
Però seguendo questo Blog mi sono resa conto che l'arte nuragica non la scopriamo solo nella bronzistica o nella grande statuaria di Monti Prama ma anche in piccoli capolavori come il Bes di Padriana (nella foto). Pochissimi, come vedo, si sono soffermati, con qualche commento critico - artistico sull'enigmatico documento, scoperto dal sign. Michele Sanna ed 'illuminato' - per così dire - dal prof.Sanna nel suo libro sulla scrittura nuragica (Sardoa Grammata, pp.283,fig.19). Una volta 'compreso' il significato del documento credo che non sfugga a nessuno il fatto che l'artista con pochissimi tratti d'incisione nella pietra e con una sintesi estrema ha realizzato, in modo impareggiabile e si direbbe moderno (quasi'futuristico'),lo sforzo dell'antico e grottesco vecchio (un 'papà' protettore e salvatore), nel domare la furia del serpente. Si osservino infatti le fattezze del dio nella lotta per terra, 'corpo a corpo', col mostro, con le membra 'tutto muscolo', con la schiena possente, vigorosamente sottolineata dal contorno della pietra curva (e forse ancor più dall'ala spezzata), con la testa che preme sulle braccia per un miglior esito della tenaglia mortale. L'effetto plastico complessivo di questo piccolo capolavoro è degno d'essere riportato in tutte le antologie di storia dell'arte antica. E credo che nessuno questo possa negarlo. Eppure a quattro anni dalla conoscenza dell'oggetto sardo tace la Sovrintendenza archeologica, tacciono le fonti d'informazione, tacciono le due Università che pure in Sardegna vantano brillanti storici ed intenditori d'arte.
Per ritornare al 'Pollicino' di Maimoni. Cosa accadrà per la sua giusta fama? Che dovrebbe essere, a mio parere, di portata mondiale, data l'unicità del pezzo nella bronzistica di ogni tempo ed il già eccezionale contesto artistico nel quale esso si inserisce. Noto che i giornali, per ora, lo hanno relegato nelle pagine interne e 'provinciali', quelle che spesso nessuno legge o legge distrattamente. Ci vorranno forse quarant'anni, come purtroppo è successo per le statue di Monti Prama, perché chi è deputato a farlo riconosca l'eccezionale valore del manufatto, ne parli al di fuori delle riviste scientifiche specializzate, informi il grosso pubblico (soprattutto quello sardo) perché conosca il valore della scoperta? O caleranno com'è, purtroppo, nostro noto sport isolano autocastrante, fitte cortine di silenzio profondo d'invidia? Oppure sorgerà un'ennesima rissa tra esperti e 'sedicenti' esperti' - come insegnano 'ad abundantiam' anche alcuni interventi di questo Blog - sull'autenticità dell'oggetto e sulla sua collocazione temporale? Sulla sua sardità o meno? Sulla sua 'nuragicità'?

sabato 11 ottobre 2008

Risposta da Stalingrado (*)

di Alberto Areddu

Gentile Cannas,
Lei ha messo al vento molte questioni sulle quali ci vorrebbero ore per discuterne. Sopravvalutando le mie conoscenze delle persone e dei fatti mi dà del vetero-stalinista (è la seconda volta che me lo prendo) unicamente perché ignorando il Vostro gruppo ho detto anche delle cose inesatte e pittoresche sui suoi componenti; meglio quindi definirmi un "irresponsabile": è un abito nel quale mi ci trovo a mio agio.
E a proposito di vesti: la foto che ho visto del non-canonico Sanna evidentemente mi ha ingannato: era un semplice cappottino, lei mi dice che va in giro anche da sessantottino, bene così, anche andasse in giro in pareo qualcosa del Vostro pensiero continua a non convincermi e a distare parecchie verste dal mio. Riguardo al convegno: nell' estratto on line del Professore, non si dice nulla né da chi e perché sia stato organizzato, quindi mi pareva un consesso strano quello in cui dei medici (continua)

* Il titolo è dell'autore

Macché ometto nuragico, è una navicella

di Mirko Zaru

Indubbiamente la nuova scoperta dei piedini di Maimone o meglio Maimoni (IGM 1:25000) è decisamente interessante, non tanto per il reperto in sé, ma piuttosto per la conferma della presenza di materiale “nuragico” del primo ferro in quella località! Come sempre si è gridato al miracolo e alla sensazionale scoperta, trasformando il bel ritrovamento in una discutibile ricerca di successo e visibilità mediatica atta a riaccendere interesse sulle fantomatiche tavolette!.
Non si tratta sicuramente del più piccolo bronzetto rinvenuto in Sardegna e tanto meno si tratta di una miniatura dedicata alla rappresentazione minuta di un “normale bronzetto” o della grande statuaria. L’esempio scelto per rapportare le proporzioni è discutibile se si prende in esame l’oggetto e se ne attribuisce l’appartenenza.
A mio modesto parere (continua)

giovedì 9 ottobre 2008

Wwf dichiara guerra a Maluentu

Con la sua prosopopea, il wwf riesce ad essere urticante anche quando avanza giuste preoccupazioni. Come oggi, quando ha preso carta bollata per denunciare alla magistratura i militanti del Paris che hanno issato la loro bandiera in Maluentu. Mica solleva il problema della conservazione dell'ambiente nell'isolotto sardo; no denuncia e minaccia galera. Del resto, ogni volta che sente puzza di autogovernodi un territorio, comunque coniugato, minaccia sfaceli.
La multinazionale aveva ragione, naturalmente, a desiderare la difesa ambientale dei monti del Gennargentu. Poteva contribuire a far nascere in mezzo alle comunità un processo condiviso che portasse a una gestione attenta degli splendidi territori. Contribuì a paracadutare una legge, la famigerata 394 di cui fu artefice, che voleva statalizzare quasi 60 mila ettari di montagne fra le più belle d'Europa. E che, soprattutto, affidava la gestione a un ente parco in cui le comunità e i loro rappresentanti contavano meno del wwf e altri soggetti privati che al massimo avrebbero avuto lo stesso titolo gestionale delle Dame di San Vincenzo.
"Sa vuvueffa", come era lassù conosciuta, attraverso pubbliche dichiarazioni e documenti si conquistò un'ostilità generale per una larga produzione di insulti contro i pastori ignoranti, le comunità che non volevano il parco per lasciar liberi i banditi di scorrazzare, gli oppositori per avere reconditi interessi da tutelare. E su tutte queste sciocchezze aleggiava libera la nessuna considerazione che gli affiliati locali della multinazionale hanno sempre avuto dell'autonomia sarda: i sardi non sono adeguatamente abili a difendere un patrimonio come il Gennargentu, i funzionari del governo italiano e, naturalmente, il wwf sì.
Di fronte all'ultima prova di alterigia - come si può sostenere che un pugno di persone rovini l'ambiente più delle migliaia di turisti che visitano l'isolotto? - non solo trova conforto la mia profonda diffidenza nei confronti di questi pashdaran dell'ambiente; sono portato a chiedere la cittadinanza di Maluentu. Si tollereranno, lì, anche i dissidenti, no?

Quel gigante alto tre centimetri

L’oggettino trapezoidale (1 per 1,2 centimetri) della foto è il basamento del più piccolo bronzetto nuragico mai trovato. Di questo sono certi l’editore oristanese Silvio Pulisci e il professor Gigi Sanna che, alla fine di agosto, l’hanno trovato a 200 metri dal mare a Maimone. Le due minuscole protuberanze (circa mezzo millimetro) sono quel che resta dei piedi. “Con una buona lente” dice Sanna “è possibile distinguere le cinque dita”,
Pulisci e Sanna hanno “ricostruito” l’altezza del mini bronzetto: intorno ai tre centimetri, un dodicesimo del più alto bronzetto conosciuto, quello del guerriero con scudo ritrovato nel Sulcis e ora custodito nel Museo Pigorini di Roma. E un quinto di un bronzetto medio. Naturalmente, a meno di un improbabile ritrovamento del resto del bronzetto, mai riusciremo a sapere quale personaggio sorreggessero i due piedini

mercoledì 8 ottobre 2008

Sì, caro Areddu, è davvero un vetero-stalinista

di Giorgio Cannas

Esimio sig. Areddu,
credo che Lei abbia decretato la sua fine come valido interlocutore. E ci perde lei, mi creda. Tanto, tantissimo. Difficilmente il prof. Sanna, dal momento che ne conosco bene il carattere, gli risponderà. Non gli risponderà, come non risponde più ad altri di pari genia, seguendo i saggi consigli di ‘Bachisieddu’ (ricorda?). Del resto, se lo facesse capirebbe cosa vuol dire scrivere nei confronti degli scriteriati e degli arruffoni come Lei.
Del resto Gianfranco Pintore l’aveva avvertita (insieme al suo compare di cordata Zaru) sul suo veterostalinismo. Ma il direttore del Blog aveva sottovalutato i veterostalinisti che, proprio perché lo sono fino al collo, non si rendono conto di esserlo. Come si muovono buttano e schizzano fango (e veleno) perché ci sguazzano. Non li si può togliere dal loro ambiente naturale. (CONTINUA)

martedì 7 ottobre 2008

437 anni oggi, la Battaglia di Lepanto

di Michele Tzoroddu

Ad una distanza temporale di tremila anni dagli attacchi delle navi sardiane all’Egitto dei faraoni, il pomeriggio del 7 di ottobre del 1571, si consumò la prima grande sconfitta dell’Impero Ottomano ad opera della metà del mondo, occidentale, che ad esso si opponeva, prendendo corpo nello scontro navale che ebbe come teatro l’arcipelago delle isole Curzolari e che passò alla Storia con il nome di battaglia di Lepanto. Della parte turca era comandante Alì Pascià, mentre il principe Giovanni d’Austria, figlio dell’im¬peratore Carlo V, era comandante della lega cristiana. Così recita il cronista spagnolo dell’avvenimento: «En la galera de su Alteza, yuan quatroziẽtos arcabuzeros sacados del tercio de Cerdeña», «nella galera di Sua Altezza stavano quattrocento archibugieri presi dal reggimento reclutato in Sardegna».
Il principe austriaco aveva avuto modo di conoscere le peculiari caratteristiche dei Sardi, nelle operazioni che lo videro contrastare per mare le forze dei Musulmani d’Africa e, memore della loro insuperabile perizia, li volle con sé sulla Reale nel frangente, più critico ed importante della sua vita, che avrebbe contribuito a portarlo sui libri di storia. (CONTINUA)

Sul casu martzu, invoco il segreto di Stato

di Franco Pilloni

Non ci dormo la notte da quando ho letto la notizia che su casu marzu è entrato nel Guiness dei primati come l'alimento più nocivo del mondo.
Confesso che nella prima notte l'impatto sul mio ego sardesco è stato terrificante, come veder cascare in polvere su nuraxi Arrubiu, come se avessero smontato e portato via alla chetichella Funtana Coberta di Ballao.
In effetti, ricordo di aver ragionato dal profondo della mia tristezza, tutti i torti non hanno, se hanno solo osservato e mai gustato il formaggio con i vermi.
Già, i vermi. Bigatti li chiamò un mio collega bolognese con cui divisi la camera da sottotenente di complemento in quel di Sacile, ahimé, quasi cinquant'anni fa. Che colpa ne ho se, quando rientrai dalla licenza ordinaria, mio zio pastore mi regalò una forma da quattro chili di formaggio marcio avvolta in carta oleata, a sua volta dentro una busta di carta straccia? Ma i vermi? I poveri vermi riuscirono a sopravvivere al caldo, allo stress del viaggio, al buio? Ah, quelli si facevano sentire, eccome! Tutta la notte chiacchieravano picchiettando sulla carta quei figli di mosca! Altro che pioggerellina di marzo nella poesia delle nostre elementari! S'inarcavano come mini arcobaleni quei vermiciattoli e poi scattavano in balzi prodigiosi che si frangevano inevitabilmente contro una barriera di carta oleata.
Una sera ebbi la temerarietà di aprire per vedere, di vedere per provare a odorare e a mettere in bocca. Il mio amico impallidì e non si mosse di un millimetro quando mi vide spalmare il pane con quella crema brulicante di bigatti. Si riebbe e ragionò cosi: se non muore lui, perché dovrei morire io? E fece il suo primo assaggio. Da quella sera, ogni sera per un mese intero fece il suo assaggio e ascoltò i bigatti che ticchettavano infaticabilmente sulla carta, diradando ogni giorno la loro presenza.
Attesto che il mio collega non è morto e io sono ancor qui: ecco il pensiero della svolta nel mio ragionamento di quella prima notte. Con esso presi sonno.
Nelle notti che si sono succedute ho ragionato molto di uomini e di vermi: mi sono chiesto, ad esempio, perché i vermi del casu marzu siano così dinamici e cosi prepotentemente vivaci, elastici e vigorosi.
Avete visto le larve dei mosconi, quelle che infettano la carne e, a volte, anche l'occhio, la gola o la mucosa nasale del cristiano pastore? Non sono così performanti, pur essendo molto più grossi.
E ancora: avete pensato a quale distanza dovrebbe saltare un cristiano atleta, se avesse le doti del bigatto da casu marzu? Se quello che misura 5 o 6 millimetri riesce a superare un ostacolo alto anche 15 centimetri, un cristiano atleta di un metro e settanta, quanto in alto dovrebbe saltare? Vero è che la tecnica del bigatti è davvero raffinata, ma il paragone non regge! E anche la seconda notte di veglia fu addolcita da considerazioni a modo loro consolanti.
La terza notte pensai ai pastori e ai messai che ho conosciuto nella mia vita, ai quali ultimi veniva pagato il pascolo estivo post- mietitura con una forma di casu marzu. A parte uno perito ancora giovane per pallettone, nessuno è crepato prima di aver compiuto gli ottanta, con punte di 85 per mio suocero, 96 per mio nonno, 112 per ziu Giuannicu che divideva il pozzo del cortile con mio suocero. Per essere un alimento così altamente nocivo, questo casu marzu ha effetti collaterali certamente interessanti: ti intossica e ti fa morire lentamente, ma così lentamente che sei costretto a “tirare” la pensioncina per trenta, quaranta, e cinquanta e più anni.
Il problema sta nel fatto che nessuno ti ha fatto edotto di tali e tante complicanze: si è mai visto un pastore che scrive bugiardini? E nessuno ha mai pensato a brevettare vermi, mosche degli ovili e casu marzu.
E queste considerazioni furono una ninna nanna per la notte di venerdì.
Al sabato, già facevo l'excursus delle materie prime usate nel tempo per tentare la sopravvivenza dei più deboli, dal latte di capra per nutrire figli di madri senza latte, a su casu axedu lasciato alla libera proliferazione di lieviti e batteri, alla miracolosa cura Di Bella basata su estratti di pipì caprina.
Ora che ci hanno sputtanato in tutto il mondo civile cosa faremo noi, popolo de su casu marzu? Ci vergogneremo e prometteremo di non consumarne più? Oppure ce ne fregheremo altamente e continueremo a spalmarlo sul pane caldo? Domenica, giorno del Signore e del referendum, ho pensato che c'è una via di mezzo: senza vergognarci, dichiareremo al mondo che è finita l'era de su casu marzu poi, tornati alle nostre case o ai nostri ovili, continueremo a mangiarlo rischiando di morire lentamente, ma così lentamente ...
E il Consiglio Regionale, in seduta riservata, dovrebbe decidere sull'argomento il segreto di stato per altri duemila anni. Altrimenti ci toccherà dividere l'alimento più nocivo del mondo non solo coi figli delle mosche, ma anche con tutti i figli di buona mamma che avranno superato il primo devastante impatto con i bigatti.
Riconosco che la mia proposta non è gran cosa, ma è sempre meglio di un referendum.

lunedì 6 ottobre 2008

Una tazza per libare, non per pregare

di Herbert Sauren

Lo scorso mese di settembre, il 18, si è tenuto a Madrid un congresso dal titolo “Maritime Archaeology and Ancient Trade in the Mediterranean”. Il commercio marittimo è un argomento che certamente interessa i colleghi in Sardegna e forse qualcuno vi ha anche partecipato.
Il giorno dell’apertura ho ricevuto l’immagine di una tazza iscritta. L’immagine ne mostra solo un lato e ad essa non è stata aggiunta una descrizione con le misure, il materiale, la tecnica di produzione come esige una pubblicazione definitiva. Si può vedere che le lettere sono incise in vernice giallastro-bruna. L’iscrizione è stata fatta dopo l’acquisto e constrassegna lo scopo del suo uso. La procedura era frequente all’epoca. La tazza è stata rinvenuta nel porto di Alessandria dall’archeologo Franck Goddio che la data verso il 50 dopo Cristo.
Capisco bene l’interesse dell’archeologo che, a caccia di sensazioni, vi ha voluto leggere “XPHCTOV”, “Cristo”. Una tale trovata sensazionale potrebbe valergli più denaro per continuare il suo lavoro. Non si da la lettura e la traduzione delle tre lettere all’inizio, si aggiunge la trascrizione delle lettere del lato invisibile come “OGOISTAIS”, una parola che si capisce come “magos”, “i magi”.
Non capisco la reazione dei filologi universitari (CONTINUA)

Referendum: una incongrua prova di forza

E se ora i deputati, regionali e statali, si rassegnassero a lavorare loro per risolvere i problemi, lavoro per cui lautamente li paghiamo? E se, dopo la raffica di referendum fallimentari, decidessero di chiamarci ad esprimerci solo su questioni di grande rilievo? La consultazione di ieri, come molte altre che l’hanno preceduta, riguardava, certo, provvedimenti importanti, ma:
1. erano frutto della decisione della maggioranza dei consiglieri regionali che noi abbiamo eletto, decisione a mio parere negativa e mutabile con un altro voto del Parlamento sardo quando ce ne saranno le condizioni;
2. il senso del cambiamento voluto era fortemente contaminato da una chiamata a giudizio non tanto politico quanto di schieramento: nel referendum la posta in gioco non era tanto la legge urbanistica quanto il governo regionale.
Andremo a votare fra poco più di sei mesi e allora sì che dovremo esprimere approvazione o condanna dell’operato del governo Soru in questi cinque anni. Aveva gran senso chiedere ora un verdetto, mescolando Autorità territoriale d’ambito o Legge urbanistica alla richiesta di un giudizio politico molto più complesso? Immagino di no, pur se anche io sono andato a votare.
La domanda implicita – ma in non pochi ragionamento fatti queste settimane decisamente esplicita – era più o meno questa: “Approvate o disapprovate la politica del governo sardo?”. A lume di naso, mi pare che la risposta, questa sì davvero implicita, sia: “Approviamo” e, comunque, “Non voglio giudicarla attraverso un sì o un no”. Difficile sarà contrastare l’idea che i sostenitori di Soru certamente si saranno fatti: gli elettori hanno sonoramente bocciato il centro destra. Così come altrettanto difficile sarà negare che Soru esca vincitore da questa inutile, incongrua e sbagliata prova di forza.

Quei mirabolanti gesuiti del xv secolo (a.C.)

di Alberto Areddu

Già dalla premessa che fa, il Nostro nel suo ultimo pezzo la butta subito sul duro: "avvertendo però subito i lettori che, fondandosi alcune di queste mie considerazioni sul rapporto scrittura-religione nuragica e scrittura-religione di Pito (Delfi), coloro che tutto ciò respingono potranno comodamente non proseguire, lasciar perdere e rifugiarsi, se lo gradiscono, su Blog diversi da questo, più chiesastici e rassicuranti per gli antikühniani isolani".
Sì il Nostro usa la parola "chiesastico" a indicare probabilmente qualcosa che segua per fede e non per ragione un suo filo personale, qualcosa dunque parafraseremmo di "poco scientifico", e siccome invece noi amiamo lo spirito scientifico abbiamo proseguito nella lettura; ma andando poi a vedere cosa il Nostro Gigi Sanna ci ammannisce qui e altrove, ritorna come un tormentone del suo operare, l'idea che a muovere supposti primigeni Cananei dalle coste siro-palestinesi ... (CONTINUA)

sabato 4 ottobre 2008

A volte le certezze incrollabili portano al disastro

di Andrea Lai

Deo puru mi so ispantau, ca appo bidu su de battor assiomas de Cristiano Becciu (Bècciu, si a issu li piachet de prusu): de sa limba sarda 'nde poden faveddare e iscrivere sos sardofonos ebbia, sos chi su sardu lu ischin faveddare e iscrivere. Custa cosa, lu deppo narrere, a mimme non mi piachet: deo su sardu lu faveddo e lu iscrivo cando 'nde appo gana deo, non ca mi lu narat calecunu. Nemmos bi podet intrare in sa libertade mea. Si Becciu podet faveddare de italianu in sardu, deo potto faveddare de sardu in italianu!
Sa cosa prus de importu, peroe, est chi su sardu ei sa politica linguistica supra su sardu sun de tottu sos sardos: si calecunu at pessau chi sos italofonos deppen abbarrare a sa muda in custa faina, chi non bi deppen intrare, abbisumeu at pessau male, ca semus faveddande de politica linguistica chi semus fachende e amus a fachere chin su dinare de tottu sos sardos.
In italiano, adesso. Vedo che il senso del mio intervento forse è sfuggito un po', ma anche questo è tipico delle contrapposizioni che nascono ovunque ci sia il problema della promozione delle lingue minoritarie: io credo sinceramente nel dialogo e penso, perciò, che lentamente ne uscirà qualcosa. Nel mio precedente intervento, volevo rendere il quadro più chiaroscurato, condividere la mia idea di come le certezze incrollabili che derivano dall'applicazione di modelli sperimentati altrove possono essere il preludio della catastrofe (se avrò tempo e ospitalità, prossimamente porterò l'esempio di situazioni in cui l'applicazione di un modello di standardizzazione del tipo oggi sperimentato in Sardegna ha allontanato i parlanti dalla lingua minoritaria). Provo ad aiutarmi con parole di altri, allora.

"Documento sociolinguistico

Gli studiosi intervenuti al Convegno La legislazione nazionale sulle minoranze linguistiche. Problemi, applicazioni, prospettive. In ricordo di Giuseppe Francescato tenutosi a Udine nei giorni 30 novembre - 1 dicembre 2001, hanno preso in esame le problematiche inerenti l'attuazione della legge 482/1999, della legge 38/2001 concernente la minoranza slovena e in generale il quadro legislativo e normativo che investe la tutela delle parlate di minoranza.
Dal dibattito congressuale e dalla riflessione che ne è seguita sono emerse alcune osservazioni e preoccupazioni che la comunità scientifica, nell'intento di contribuire a una applicazione efficace e attenta alle effettive esigenze e ai reali equilibri delle comunità linguistiche oggetto dei provvedimenti di salvaguardia, offre all'attenzione di tutti coloro che sono coinvolti nella fase di attuazione delle misure previste dalle suddette leggi.
Di tali considerazioni forniamo qui di seguito un sintetico quadro riepilogativo, confermando la disponibilità delle Società scientifiche rappresentative degli studiosi di Scienze del Linguaggio (ad es. "Società Italiana di Glottologia", "Società di Linguistica Italiana", "Associazione Italiana di Linguistica Applicata") e delle strutture universitarie a cui essi fanno riferimento a offrire sistematica collaborazione alle istituzioni chiamate in causa.

- E' necessario che, per evitare pregiudizievoli effetti omologativi, nella tutela di ciascuna delle minoranze linguistiche interessate, si tenga conto:
a) della singolarità di ciascuna lingua locale
b) del peculiare profilo sociolinguistico, ossia della composizione del repertorio di ogni singola comunità linguistica

- Si deve tenere presente che caratteristica peculiare, anche se non esclusiva, di ogni lingua locale è l'oralità. Le iniziative di standardizzazione delle forme scritte devono tenere in massimo conto le effettive forme orali anche nelle loro varianti; tali iniziative devono comunque presentarsi come solamente indicative, evitando ogni carattere costrittivo che può essere percepito dai parlanti come una grave forzatura e condurre a risultati opposti a quelli desiderati.

- Deve essere favorita in ogni modo la 'comunicazione effettiva' accanto alla 'comunicazione istituzionale'. Questo significa che, soprattutto a livello di formazione, si deve operare ogni sforzo per l'educazione alla tolleranza normativa.

- Si devono riconoscere altresì tutte le condizioni di eteroglossia non menzionate dalla Legge 482 (ad es. tabarchini e galloitalici del Meridione) il cui status sociolinguistico sia di obiettiva alterità rispetto alla lingua nazionale e/o al tipo idiomatico prevalente nell'area di insediamento.

- Si deve valutare la necessità di garantire forme specifiche di riconoscimento e tutela delle minoranze disseminate o 'diffuse' e delle 'nuove minoranze' dotate di un proprio progetto di radicamento con apposite normative e relative risorse..." (il documento intero in http://web.uniud.it/cip/cip_conv_legislazione_naz.htm.
C'è di che riflettere, mi pare.

p.s.: mi scuso in anticipo se in qualche parte del mio intervento c'è traccia di polemica.

I numeri di questo sito

Questo blog “festeggia” il superamento delle 13.000 pagine viste negli ultimi quattro mesi. Un bel risultato per un sito in cui si parla e si discute prevalentemente di archeologia, lingua sarda, cultura politica. Chi ne avesse curiosità, troverà nel mio sito l’elenco degli articoli più letti, la distribuzione geografica dei lettori, degli argomenti che hanno destato maggiore interesse

venerdì 3 ottobre 2008

Pozzo di Garlo: e se c'entrassero i cadmei?

di Gigi Sanna

Caro Gianfranco,

Con il tuo ultimo intervento sull’ormai famoso Pozzo di Garlo, rinvenuto presso Sardica/Serdica in Bulgaria e studiato dall’archeologa Dimitrina Mitova Djonova più di vent’anni fa (in ‘Atti del Convegno di Selargius’, 1986), mi hai stimolato a qualche riflessione e a precisare, se si vuole, quanto ho già scritto (in 'I Segni del Lossia Cacciatore', S’Alvure ed. Oristano, pp 139 -148) sulla cacciata dei Cadmei ad opera degli Argivi di cui parla Erodoto in una pagina delle sue Storie (I,57,2). Naturalmente quanto dirò cerca solo di chiarire, in qualche modo, quanto si evince dalla storia raccontata; ma anche dal mito, perché il pozzo di Garlo coinvolge, a mio parere, anche la questione relativa al racconto, non si sa quanto favoloso, delle vicende di Cadmo (e di Armonia) e la stessa fondazione della città di Budva.
Ma andiamo per ordine, avvertendo però subito i lettori che, fondandosi alcune di queste mie considerazioni sul rapporto scrittura-religione nuragica e scrittura-religione di Pito (Delfi), coloro che tutto ciò respingono potranno comodamente non proseguire, lasciar perdere e rifugiarsi, se lo gradiscono, su Blog diversi da questo, più chiesastici e rassicuranti (CONTINUA)

Ecco perchè sto con quelli di Maluentu

di Maurizio Meli (su Sindicu de Funtana Meiga)

Deu seu Su Sindicu 'e Funtana Meiga (pari mancu beru ma esti aici e mi d'anti postu cumente paranomini). Detto questo caro collega mi duole doverti riprendere su una cosa (ma non è tutta colpa tua). Sei troppo forte sui motori di ricerca e quando parli di fascismo (in qualunque soluzione) rischi di essere interpretato male perché a volte la gente legge solo i titoli e non la sostanza. A meno che tu davvero non stia coi fascisti ma mi sembra d'aver capito che non è così. Comunque: Per ciò che concerne la questione di Maluentu e del suo significato, che è molto più profondo di quanto in un mese sia stato distortamente spiegato o male interpretato... (CONTINUA)

giovedì 2 ottobre 2008

L'identità non agonizza e però...

Temo che nel suo accorato allarme sull’agonia dell’identità sarda, pubblicato su questo blog, Matteo Bulluggiu abbia molte ragioni, anche se non in tutto, credo, la verità delle cose lo soccorra. Un caro amico che oggi non c’è più, lo scrittore francese Edouard Vincent ha passato alcuni decenni della sua vita fra Orgosolo e Belvì e solo qualche mese all’anno nella sua città, Grenoble. Gli chiesi un giorno perché avesse scelto questa terra come buen retiro dove scrivere romanzi e vivere. “Vedi Janfrancò” da buon sciovinista francese rifiutava l’idea che un parola potesse non terminare con l’accento “ovunque sia andato ho trovato gente, qui ho trovato popolo”.
Noi non riflettiamo abbastanza su questa che sembra un’iperbole, usata da parte delle classi dirigenti come captatio benevolentiae (CONTINUA)

mercoledì 1 ottobre 2008

S'istandard o est unu o no est istandard

de Cristiano Becciu

Pro me est un’ispantu a bìdere respostas in italianu in unu blog in ue si faeddat de sardu in sardu. Mi diat agradare chi Andria Lai mi torret imposta in sardu.
Sos assiomas mios, sas beridades chi non si podent controire, a cantu narat Lai, sunt tres.
1) Est pretzisu a tènnere un’istandard. Custu est cumbinadu in belle totu Europa, ca sas minorias linguìsticas prus nòdidas ant semper tentu sa punna de unu istandard, pro fàghere a manera chi sas limbas issoro esserent rapresentadas in sas seas prus adeguadas, e poderent faeddare de totu. Sa limba sarda in sa pùblica amministratzione sighit custa caminera giai imbucada. No l’at cherta Becciu, ma -pro su chi pertocat a sa legislatzione- la proponet sa Lege regionale nùmeru 26 de su 1997 (Titolo V: USO DELLA LINGUA SARDA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE) e sa Lege istatale nùmeru 482 de su 1999 (“è consentito, negli uffici delle amministrazioni pubbliche, l'uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela”). Firmadas dae su Presidente de sa Regione e de sa Repùblica. A tènnere un’istandard no est a istòrchere s’italianu, ma a impreare su sardu fintzas in setores tècnicos, pro chi non siat petzi limba de sos afetos, de sos sentidos, de sa poesia, de su cuile. Prus a prestu, chie respondet in italianu a unu chi chistionat cun isse in sardu e de sardu, mi paret chi l’ istorcat de prus isse, sa limba.
2) S’istandard depet èssere unu ebbia. S’arrejonu non cheret fatu solu pro su chi pertocat s’iscièntzia. Emmo, so cun Andria Lai: sa chistione est polìtica. Ma sas limbas chi sunt malàidas, a tretu de mòrrere, si curant cun sa polìtica linguìstica non cun sa poesia e sos contos de foghile e nemmancu cumpidende, a chie nde contat de prus, sas variedades faeddadas. Si sa limba depet èssere sìmbulu de unione, ètnicu, identitàriu, natzionale, nessi in sa sea amministrativa prus arta depet èssere una ebbia. Ca cale si siat bidda podet rapresentare, cun sa variedade sua, sa limba sarda. Ma un’istandard depet èssere, subralocale, subramunitzipale e identitàriu a su matessi tempus. Semper chi esistant a beru custas duos mollos de iscritura, ma a podent bàlere pro totus? Si in un’ufìtziu amministrativu tzentrale si s’ismalàidat unu funtzionàriu de Taranto, su collega de Bressanone, chi ddu remplasat, iscriet sa determinatzione in Italianu etotu. E puru si andamus a contare sas variedades de s’italianu faeddadu, gesummaria, nos dat puntos! S’istandard est un’aina, un’istrumentu pro s’amministratzione, una norma iscrita de referèntzia e rapresentàntzia. In sas biddas sigant a iscrìere comente cherent: no est un’impèigu s’iscritura de sas àteras variedades, pro chie lu chèrgiat fàghere. Ma duos, deghe, chentu, treghentos setanta istandard partzint, no aunint e est impossìbile, a manera econòmica e de pratichesa, a los fàghere devenire totus istandard. Sa bandera, s’istendardu, est petzi unu in sa Regione. Ma non remplasat sos gonfalones locales, antis, est semper a costadu!
3) Logudoresu e campidanesu. E sighimus: nugoresu, baroniesu, ogiastrinu, barbaritzinu, arboresu, sulcitanu, casteddaju. A ogni linguista currispondet una partzidura diferente de sas variedades de sardu. Narat cun contu Lai: tocat a no amesturare polìtica e iscièntzia, in custu casu. E sigo deo: e tocat de non pigare sa limba pro dialetu, ca est cussa sa faddina prus manna in una minoria linguìstica de amparare e valorizare. E mirade chi non so mancu ponende in contu su de iscrìere (e faeddare) italianu cando si podet e si dèpet iscrìere in sardu. Ca gasi paret chi s’alternativa a su sardu istandard siat s’italianu istandard!

Devimus tènnere de contu chi non totu sos chi connoschent o faveddant su sardu sunt a gradu de l'iscrìvere.(gfp)