venerdì 31 luglio 2009

Dialetti, lingue e tentazioni eversive

Leggi su un quotidiano delle “ripugnanti proposte leghiste, come quella recentissima di imporre agli insegnanti un esame di cultura e lingua locali” e devi correre a vedere la data del giornale. Vero è che quell’aggettivo “leghiste” ti da il senso del tempo. Ma la frase di Ernesto Galli della Loggia sembra presa dal passato fascista. Quando, nel 1931, il gerarca responsabile dell’ufficio stampa di Mussolini, Gaetano Polverelli, imponeva ai giornali di “non pubblicare articoli, poesie, o titoli in dialetto. L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali del regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e di servitù della vecchia Italia”.
Curiosa somiglianza dei due con quanto diceva Friedrich Engels, amico e compagno di Marx, secondo il quale – cito a memoria – i “dialetti” sono rottami del passato che la storia provvederà a cancellare. L’odio per le diversità, il livore contro tutto ciò che l’invenzione degli Stati-nazione non riesce a controllare è una costante nel fascismo e nel comunismo. Evidentemente non solo lì. Non c’entra la Lega, o, al massimo, la Lega è il capro espiatorio di un nazionalismo granditaliano che non a caso rigurgita oggi che è aperta la polemica di questi nazionalisti contro la disattenzione con cui la politica guarderebbe alle celebrazioni del 150simo anniversario della cosiddetta “Unità d’Italia”.
La Repubblica italiana è unita e già la cosa, per come questa unità si è formata, cancellando il fatto per esempio che essa è erede del Regno di Sardegna, lascia perplessi. È comunque costituzionalmente garante delle autonomie e delle lingue diverse dall’italiano e, sotto questo aspetto, dà garanzie di quel pluralismo che gli epigono di Polverelli vorrebbero cancellato. Ma dire che unita è l’Italia, intesa come l’insieme di territori, lingue, culture, tradizioni, è una pericolosa sciocchezza che, questa sì, farebbe tornare lo Stato italiano all’Ottocento e al Ventennio. Solo nostalgici del vetero-nazionalismo passato possono pensare davvero a uno Stato, un Popolo, una Lingua.
Dal momento che la Costituzione riconosce l’esistenza di lingue diverse dall’italiano e, per quanto ci riguarda, l’esistenza del popolo sardo (niente meno che titolare di iniziativa legislativa), scritti come quello di Della Loggia non sono solo scioccamente provocatori: sono una istigazione all’eversione.

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